Istat: il 45% delle piccole e medie aziende a rischio fallimento

I virus colpiscono i punti deboli. Così accade per il corpo umano, e così avviene anche per l’economia. Questa affermazione è dell’l’Istat che, nel suo Rapporto 2021 sulla competitività del settore produttivo, ha colto l’impatto della pandemia sulle imprese italiane.

Dalla relazione emerge un dato sconvolgente: “circa il 45% delle aziende è strutturalmente a rischio”. Ciò significa che non possono permettersi nuove crisi. Quando le imprese si espongono a crisi estern,  infatti, subiscono conseguenze che mettono a repentaglio il proprio business. Queste situazioni ad alto rischio si concentrano prevalentemente nelle aree a bassa tecnologia e con scarso livello di know how.

Il rapporto Istat evidenzia comegli impatti economici più dannosi riguardano le attività legate al turismo.

Per le aziende italiane in generale si registra percentuale di rischio di chiusura  del 59%,  percentuale che aumenta e diventa sempre più drammatica a seconda dei settori: eventi di agenzie di viaggio (oltre il 73%), arte e spettacolo (oltre il 60%), trasporto aereo, catering (55%).

Nel settore industriale spiccano le difficoltà della filiera dell’abbigliamento (oltre il 50%), pellami (44%), tessile (35%). Sempre sul versante industriale, alcuni settori a basso tasso tecnologico hanno una percentuale di rischio molto elevata: legname (79,7%), edilizia professionale (79,7%), cibo (78,5%), abbigliamento (73,2%).

Nel settore dei servizi, circa il 50% delle imprese è strutturalmente fragile o a rischio, con picchi molto elevati in alcuni settori a basso tasso tecnologico: food and beverage (95,5%), servizi di edilizia e paesaggio (90%), altre attività di servizi alla persona (92,1%), attività sportive e ricreative (85,5%).

La crisi ha colpito le piccole e piccolissime imprese principalmente attraverso un crollo della domanda interna e della liquidità. Circa il 30% è stato “spazzato via” dalla pandemia, con una microimpresa su quattro che ha risposto lanciando nuovi prodotti, diversificando i canali di vendita e di fornitura e uno su cinque riorganizzando profondamente processi e spazi di lavoro.

Appena un’impresa su nove (11%) appare in condizioni di piena solidità economica. Si tratta però delle aziende più grandi tanto che in questo 11% di concentrano la metà degli occupati italiani e i due terzi del valore aggiunto generato dalla nostra economia. La crisi, spiega ancora l’Istat, ha “prodotto divisioni sul territorio, anche a causa della applicazione delle misure di contenimento della pandemia su base regionale”. Risultano colpite dalla crisi tutte le regioni, ma l’impatto più forte è al Centro-Sud. In 11 regioni “almeno la metà delle imprese presenta almeno due di tre criticità che le denotano a rischio alto o medio-alto (riduzione di fatturato, seri rischi operativi e nessuna strategia di reazione alla crisi)”. Di queste 11, sette sono nel Mezzogiorno (Campania, Abruzzo, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, Puglia), una sola al Nord (provincia autonoma di Bolzano) e tre nel centro Italia (Lazio, Umbria e Toscana).

L’impatto economico della pandemia su queste regioni è stato “eterogeneo ma pervasivo”. Le regioni le cui economie sono specializzate nelle attività più colpite dalla recessione appartengono a tutti i macro settori: Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Sardegna, Lazio e Toscana (turismo), Veneto, Toscana, Umbria e Marche (tessile), Calabria e Sicilia (commercio e ristorazione).

L’Istat ha rilevato che le prospettive di ripresa per il 2022 sono considerate limitate: meno di una società su cinque prevede che l’attività prosegua normalmente nella prima parte dell’anno. La crisi ha colpito soprattutto le piccole e piccolissime imprese (più di un terzo di quelle con 3-9 dipendenti è a rischio), principalmente come crollo della domanda interna e della liquidità.

L’insolvenza di molte imprese rappresenta il principale rischio per il sistema produttivo italiano nei prossimi mesi, aumentando il rischio di un possibile shock del sistema bancario.

In Italia, dal 2012, la legge n. 3 ha introdotto strumenti normativi per uscire dal sovraindebitamento, tuttavia, a 9 anni dalla sua entrata in vigore, sembra essere ancora in gran parte sconosciuta alla maggior parte delle persone. Lo conferma anche uno studio condotto da Legge3.it su 430 imprenditori in tutta Italia, un’organizzazione fondata da Gianmario Bertollo per aiutare i privati ​​e gli imprenditori a uscire dai debiti e rimanere “puliti”.

Circa due terzi degli imprenditori (62%) non sono a conoscenza dell’esistenza delle leggi e delle opportunità che presentano. Di questi, circa il 21% si è trovato o si trovava in una situazione di indebitamento e il 3% era eccessivamente indebitato, ma nessuno di loro aveva sentito parlare della legge 3/2012 prima di questa indagine, nemmeno dai loro commercialisti o avvocati.

Il 74% degli imprenditori intervistati ha accusato la crisi del Covid-19 di peggiorare l’economia e il 25% è stato costretto a chiedere prestiti per coprire le spese, che ancora non possono essere completamente rimborsate (88%).

Cerca:

Condividi:

WhatsApp
Telegram
Facebook
Twitter
LinkedIn
Email
Stampa